La figlia del pescatore

da | Racconti, Fantasy

Racconto di Azzurra Meis

A volte mi fanno male le dita anche se non le ho più, da quando mio padre me le ha spezzate a colpi di remo. Mio fratello lo ha aiutato a trascinarmi in spiaggia e a caricarmi sulla barca, mi ha tenuta ferma perché non mi divincolassi e tappato la bocca perché nessuno accorresse udendo le mie deboli grida. Quando però eravamo giunti al largo e si erano accinti a gettarmi in acqua, mi ero aggrappata al bordo dell’imbarcazione con tanta forza da riempirmi le mani di schegge.

Rifiutavo l’idea che finisse in quel modo. Non era così che avrei voluto lasciare la nostra catapecchia ombrosa e rosicchiata dalle intemperie, il pavimento sempre impolverato dove ci stavano appena le stuoie da srotolare la sera, la pignatta scheggiata sul focolare che ribolliva della solita zuppa di legumi, uniche piante coltivabili in quel terreno salmastro.

«Avrei dovuto chiedermi perché sgattaiolavi via appena mi distraevo», aveva detto mio padre. Mentre mi comprimevo con le dita il labbro spaccato da un manrovescio, avevo guardato oltre le sue spalle: Dariel era riverso al suolo immobile e su di lui incombeva ancora mio fratello, le nocche chiazzate di rosso.

Avevamo deciso di scappare insieme, Dariel e io. Non avrei mai ottenuto il consenso al matrimonio con un uomo del villaggio: la mia famiglia diffidava dei suoi abitanti e pretendeva che anch’io me ne tenessi alla larga.

«Useremo la tua barca», avevo suggerito a Dariel. «Allontaniamoci all’ora in cui di solito vai a gettare le reti e nessuno avrà sospetti».

Ma quella barca la mia famiglia l’avrebbe usata per sbarazzarsi di noi.

Appena avevo perso l’appiglio, il peso delle mie vesti zuppe d’acqua mi aveva trascinata in profondità. Seppellita dalle onde, avevo ancora agitato inutilmente le braccia spandendo sangue dalle mie ferite, mentre un panico assoluto mi stringeva il cuore. Ecco perché gli animali selvatici impazziscono, quando li chiudi in gabbia, avevo pensato. Ecco perché continuano a correre in tondo nonostante la via d’uscita sia fuori dalla loro portata.

L’abbraccio nero dell’abisso che mi inghiottiva avrebbe dovuto essere l’ultima delle mie percezioni, quella che sarebbe sfumata nella morte – ma non era andata così.

Diversamente da com’ero stata educata ad aspettarmi, non avevo reso l’anima ad alcuna divinità, anzi: la mia coscienza era stata del tutto vigile e non si era persa un istante del lento viaggio compiuto dal mio cadavere, rapito e cullato dalle correnti sotto la superficie. La paura aveva presto lasciato il posto alla perplessità, sfociata a sua volta in meraviglia: invece di decomporsi, il mio corpo si stava adattando all’ambiente in cui era stato scaraventato.

La mia massa era aumentata fino a raggiungere le dimensioni di uno di quei cetacei che di tanto in tanto, dalla spiaggia, vedevo tuffarsi tra le onde. Le mie gambe si erano fuse in un’unica appendice dotata di nuovi muscoli potenti. Una membrana era spuntata nello spazio tra le braccia e il torace, così come tra le dita innaturalmente allungate di ciò che restava dei miei piedi, fornendomi pinne per spostarmi a piacimento. Diversi filamenti simili a vibrisse si erano allungati dal mio mento e dalle mie guance, sonde sensibili utili a orientarmi nell’oscurità. La mia carne aveva assunto una consistenza gelatinosa per meglio resistere alla terribile pressione oceanica, mentre la pelle si era fatta traslucida: sotto di essa riuscivo a distinguere i contorni di ossa e organi interni. I miei capelli erano venuti via a ciocche, ma dal cranio calvo si era sollevato un peduncolo la cui estremità tondeggiante emanava lucori bluastri… Sono cresciuta in una famiglia di pescatori: avevo riconosciuto subito l’escrescenza come un’esca.

Appena una creatura acquatica si era avvicinata, attratta dal bagliore, avevo spalancato la bocca – una mezzaluna irta di denti ricurvi che mi fendeva la faccia da un orecchio all’altro come uno squarcio: avevo fatto avanzare la mandibola fino a catturare l’intera preda nel mio stomaco elastico.

Esplorare la mia condizione dà gratificazioni inaspettate. Se ho trascorso la vita occupandomi dei bisogni altrui, servendo i miei parenti in punta di piedi per non diventare bersaglio della loro frustrazione, da morta ho imparato a dare un senso diverso alla pazienza e all’attesa: quando vado a caccia, sono in grado di rimanere immobile sul fondale vischioso anche per ore, finché qualcosa non fa scattare la trappola senza scampo della doppia chiostra acuminata dei miei denti. C’è un piacere primitivo nel crogiolarsi nel fango.

Non provo molta nostalgia per ciò che mi sono lasciata alle spalle, però mi incuriosiscono i pettegolezzi che il mio assassinio ha generato. Al villaggio, Dariel è stato l’unico a interessarsi alla mia situazione, eppure sono ricordata proprio in virtù della mia truculenta dipartita, anche da chi mi chiama “la figlia del pescatore” perché non conosce il mio nome.

Amanti perseguitati si inginocchiano sulla battigia e mi sussurrano i loro patemi, benché la mia esperienza non sia auspicabile. Pescatori in procinto di mettersi in mare mi dedicano piccoli sacrifici affinché non rovesci la loro barca con un maroso per dispetto, neanche avessi voglia di farlo. Addirittura – e qui il mio divertimento raggiunge il culmine – alcuni vengono a chiedermi perdono per aver violato questo o quel tabù, neanche potessi intercedere per loro presso gli dèi! Ma se mai catturassero e mi consegnassero mio padre e mio fratello, che si sono dati alla macchia, un tentativo lo farei…

Guizzi di luce in avvicinamento attirano la mia attenzione. Chi viene a trovarmi nell’oscurità? Mi sollevo dal fondale, rimescolando la fanghiglia sotto di me con quello slancio improvviso.

Sono pronta a fare mio questo visitatore inaspettato, ma freno le mandibole quando riconosco chi – cosa – si è fermato a galleggiare davanti alla mia faccia: è Dariel.

Anche lui è cambiato parecchio da morto. Non è cresciuto quanto me: il suo corpo è lungo tanto quanto era alto da uomo. Se però nella parte superiore si può ancora riconoscere un’origine umana, dalla vita in giù ha una lunga coda da girino compressa ai lati, con file di piccoli organi fosforescenti che ammiccano brillando: “Ti ho trovata”. 

Il viso è quasi come lo ricordavo, anche se la pelle attorno alle branchie si è fatta rugosa e presenta spine sopra gli occhi e sotto la bocca a ferro di cavallo. Gli occhi enormi e sporgenti sono rivolti verso di me, le narici appiattite fremono.

La sua vista mi paralizza; sento il peso dell’oceano, come non accadeva dalla notte in cui sono annegata.

Non scaccio Dariel quando nuota fino al mio torace e morde uno dei miei capezzoli atrofizzati. Le labbra viscide succhiano la mia pelle fino a fondersi a essa; la lingua mi raschia la carne finché non trova una vena. Appena Dariel ingerisce le prime gocce di sangue, il mio cuore riprende a battere per la prima volta dopo molto tempo, e all’unisono col suo. Ormai siamo parte integrante l’uno dell’altra.

Da adesso in avanti, lo nutrirò e lo proteggerò io.