Ne La Campana di Vetro Esther Greenwood è una ragazza di 19 anni. Dopo uno stage editoriale a New York, vinto grazie allo stupefacente impegno nello studio, torna a casa. Torna perché inizia ad aprirsi in lei una voragine: prima sottile, una piccola crepa, e poi un burrone oscuro, che la risucchierà in una feroce depressione. Esther passerà di clinica in clinica, e poi, finalmente, scavando con le unghie nel terreno della sua stessa oscurità, risalirà alla luce, scorgendo la serenità. Il romanzo si conclude un momento prima di avere il verdetto finale che sancirà la sua guarigione; ma il lettore già sa che non c’è alcun confronto con l’Esther iniziale e quella finale.
Un libro che ogni donna dovrebbe leggere.
C’è un groviglio di aspettative, speranze, passioni, repressioni e repulsioni che si annoda in Esther; una rappresentazione che nella sua opacità è limpida agli occhi delle giovani donne che si approcciano all’età adulta. È difficile spiegarla a parole, e sarebbe riduttivo per me tentare di farlo. Per questo motivo, lascerò che Sylvia Plath lo faccia al posto mio:
“Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere. E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché uno dopo l’altro si spiaccicarono a terra ai miei piedi.”
Esther, fresca di scuola, ha davanti a sé una infinita diramazione di possibilità, eppure nessuna è abbastanza attraente da sovrastare le altre. Non c’è nulla di peggio dell’indecisione. Ed è questo, secondo me, quello che tortura mortalmente il suo personaggio, la sua tragedia. È così con gli uomini; tutti alquanto interessanti ma mai abbastanza da coinvolgerla emotivamente, così con le sue amiche; tutte belle ma con le loro piccole imperfezioni che le impediscono di prenderle sul serio; così con la scuola: ogni lezione è un semplice accavallarsi di parole e numeri, e passare gli esami non è né eccitante né gratificante.
Vivere sotto la campana di vetro.
“Ricominceremo da dove eravamo, Esther – aveva detto mia madre con il suo dolce sorriso da martire – Faremo come se fosse stato soltanto un brutto sogno”.
Un brutto sogno.
Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo.”
La discesa nella depressione parte lenta: all’inizio è un quieto disorientamento, ancora a New York. Poi, a casa, tra le mura e sua madre inizia a crescere in una insoddisfazione lacerante, diventando poi un’incoerenza delirante. Esther tenta di scrivere un romanzo, ma abbandona. Esther tenta poi di suicidarsi, ma non ci riesce. Qui, inizia la parte che mi ha personalmente colpito più in profondità. La Plath descrive la psiche frammentata di Esther con maestria e crudezza: non ci viene risparmiato niente, ogni pensiero, anche il più spregevole, è inciso in maniera così tagliente che acquisisce una dimensione monolitica. Il linguaggio della Plath mostra tutta la sua attività poetica successiva e precedente, le immagini che Esther dipinge nella sua rappresentazione della realtà sono delicate ma potenti, ognuna estremamente evocativa.
È interessante, soprattutto, lo squarcio storico che ci viene offerto delle strutture di ricovero psichiatrico. Particolarmente toccante è il momento in cui Esther viene sottoposta all’elettroshock; una descrizione così pungente non poteva che derivare dall’esperienza personale dell’autrice, anche lei sottoposta al medesimo trattamento per la cura del disturbo bipolare.
E infatti, l’opera è largamente autobiografica. C’è qualcosa di luminoso nel finale del libro, laddove è mancato nella vita di Sylvia Plath. Il vedere Esther che varca la porta verso la sua diagnosi di guarigione, dopo aver passato pene terribili, dopo aver scardinato e analizzato l’interezza della propria vita e averla giudicata sia negativamente che positivamente, dopo essere stata “sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica”. Quello che la Plath riserva a Esther è una possibilità, un futuro, la voglia di andare avanti a scoprire quali altri frutti l’albero di fico avrà in serbo per lei.
“Tirai un profondo sospiro e ascoltai il vecchio canto del mio cuore:
Io sono, io sono, io sono.”
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