Stamattina, quando mi sono svegliata, la città era immersa in una fitta nebbia giallastra. Dal mio appartamento al dodicesimo piano riesco a vedere i palazzi e grattacieli della capitale avvolti nella tempesta di sabbia mista a smog. Di sotto, sui marciapiedi, i pochi passanti si affrettano a raggiungere le loro destinazioni. Capita spesso che la capitale venga investita da grandi tempeste di questo genere, ma era da tempo che non ne vedevo una così opprimente.
Adesso sono rintanata in salotto, illuminato da una luce giallognola che proviene dalla finestra, e ho ancora il pigiama addosso. Mi preparo un tè nero e mi trascino sul divano.
Dovrei vergognarmi di essere in pigiama a quest’ora – le lancette dell’orologio appeso alla parete del salotto segnano le dodici meno un quarto – ma ieri ho passato una giornata terribile. Quel tizio nella linea temporale B19 era davvero un osso duro e mi ha lasciato sangue ovunque, sui vestiti, sulle scarpe, dappertutto. Ho il diritto di rilassarmi un po’.
«Hey, Mirage, previsioni del tempo per stasera?»
La voce robotica di Mirage risuona nella stanza. «Previste nubi sparse in serata. Precipitazioni assenti. Vento debole. Qualità dell’aria pessima, si sconsiglia di uscire.»
«Mmh, okay. Che schifo di tempo. Puoi chiamare Cleo?»
«Certo, signorina Harris. Chiamata a Cleo in corso.»
Cleo è passata ieri sera ad aiutarmi a disfare le treccine. Adesso i miei capelli si gonfiano in un piccolo afro che sta da Dio con la mia pelle scura. Ci siamo date appuntamento stasera per un drink, ma a quanto pare dovremo rimandare. Ma il telefono squilla a vuoto per qualche secondo.
«Comunicazione interrotta. Ho rilevato qualche problema alla rete.» dice Mirage.
Sbuffo sonoramente. «Che tipo di problema?»
«Impossibile da accertare.»
«Per essere un’intelligenza artificiale, mi sembri un po’ deficiente.»
La mia mente va a Cleo. Lei pensa ancora che io lavori in quel bar sulla diciottesima, quello pieno di tossicodipendenti costantemente fatti di Neuraxil. Non so come reagirebbe se sapesse che sono un sicario per la Epoch. Ma faccio questo lavoro da dieci anni ed è sempre filato tutto liscio, più o meno…
Il filo dei miei pensieri viene interrotto dalla voce irritante di Mirage: «Signorina Harris, c’è una comunicazione da parte del signor Chapman. Riguarda il suo incarico. Inoltre, sono arrivate tre mail da Giamora Beauty.»
«Va bene, elimina lo spam della Giamora e leggimi la comunicazione di Chapman.»
«Dice che le ha mandato tutto via mail criptata.»
Mi allungo per afferrare il tablet appoggiato sul tavolino. Scorro la valanga di mail fino a quando non trovo quella di Chapman, che è stringata come al solito:
NUOVO INCARICO
19 gennaio 2023, ore 17:35, linea D190
Latitudine: 42.41967, Longitudine: 117.57671
Target: Wille Lundberg
Uomo caucasico di 29 anni, altezza 195cm
PS: Registrate numerose anomalie spaziotemporali. Valutare di rinunciare all’incarico. – C.
«Mirage, chiama Chapman.»
Il telefono squilla per un po’ fino a quando la voce impastata di Chapman non mi risponde. «Harris?»
«Chapman, cosa significa?» lo incalzo. «Anomalie spazio temporali? Non rinuncio all’incarico.»
Silenzio. C’è qualcosa che non vuole – o non può – dirmi. Oppure non lo sa e basta. Chapman è sempre stato un uomo molto criptico, fin da quando abbiamo iniziato a lavorare insieme sei anni fa. Se c’è una cosa che so di lui, è che bisogna tirargli fuori le risposte a forza.
«Non lo so» sospira. «Ma stiamo avendo molti problemi.»
Mi alzo svogliatamente dal divano per andare a togliere il pigiama e mettermi qualcosa di decente. Il cappotto nero mi aspetta appeso all’attaccapanni all’ingresso. L’ho detto a Chapman, non mi interessa delle anomalie, io non rinuncio all’incarico. «Problemi di che tipo?»
«Colleghi scomparsi, oppure finiti nelle linee temporali sbagliate. La mattinata è iniziata proprio con il piede sbagliato.»
«Ha a che fare con la tempesta di sabbia?»
Sento il leggero respiro di Chapman dall’altro capo del telefono. Poi: «Penso di sì.»
*
Ho detto a Mirage che sarei tornata nel giro di un’oretta. Tempo di passare alla sede della Epoch sulla quarantottesima, saltare indietro nel tempo di una settantina di anni, tornare nel 2097 e prendere le verdure per il ramen al negozietto sotto casa. In realtà, non so se avrò voglia di cucinare stasera.
L’atterraggio è sempre la fase più critica per via della nausea e del giramento di testa che comporta. Mi sento un po’ disorientata, ma realizzo in fretta di trovarmi in un monolocale buio e disordinato. C’è un letto sfatto in un angolo, le coperte macchiate di Dio solo sa cosa che giacciono per terra, e una scrivania con un computer acceso dall’altro lato della stanza. Qualche lattina di birra vuota sul pavimento. Dalla finestra entra una luce flebile. Mi affaccio per scoprire che l’appartamento è al primo piano e sotto c’è un cortiletto polveroso.
Guardo l’orologio al polso. Sono le 17:35. Ma lui dov’è?
Qualcuno bussa alla porta. Deve trattarsi di Lundberg. Tutto questo non ha senso. Lundberg dovrebbe trovarsi nel monolocale, e se sta tornando a casa perché si mette a bussare?
Cerco la Polaris, ma non la trovo. Dove accidenti è andata a finire? Ero sicura di averla con me! Questo significa che sono disarmata. Il cuore prende a martellarmi nel petto mentre realizzo che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato in questa situazione.
Poi lo sconosciuto butta giù la porta. Pelle scura, un lungo cappotto nero, capelli afro. E mi sta puntando addosso la Polaris. «Signor Lundberg?»
Faccio in tempo ad alzare le mani pallide davanti a me, in segno di resa, poi lei mi spara.
Chapman aveva ragione.