Cos’è un libro? Sembra una domanda banale, e forse lo è. Tanto varrebbe chiedere cos’è il cielo, o cos’è il vento.
Vi invito a rispondere voi stessi, dunque. Cercate tra i vostri scaffali, sui tavoli, o nella libreria più vicina un libro qualunque, che sia il vostro preferito o un semplice fermacarte che usate per sorreggere una sedia storta. Stringetelo, apritelo, leggete una pagina e tentate per gioco di rispondere a questa domanda.
Dunque cos’è? Certo, si può banalmente definire un libro come un insieme di pagine scritte rilegate assieme. Ma è tutto qui? Basterebbe dunque scrivere parole a caso sulla pagina per realizzare un “libro”? Lo definireste forse come un insieme di scritti atti a tramandare una storia, un racconto, o un insegnamento? Forse questa è una definizione più accurata. Così facendo, tuttavia, dovrete ammettere che il contenuto delle pagine, lo scritto in se, è parte formante del “libro”.
Ottimo, abbiamo trovato una base di partenza, dunque. Perciò ecco la prossima domanda: se dovessimo dar fuoco al libro, esso cesserebbe di esistere?
Di nuovo, può sembrare banale. Se le pagine sono strappate, tagliate, ridotte in cenere e le lettere rese illeggibili, allora il libro di fatto non esiste più. Eppure per distruggere davvero una cosa non si dovrebbe eliminarla in tutte le sue parti? Che ne è del contenuto? Di ciò che è stato scritto? Potete davvero distruggerle?
Siamo a uno stallo, quindi. Se ammettiamo che le parole sono fondamentali per l’esistenza del libro, dobbiamo accettare che non è possibile distruggerlo del tutto senza ridurne in cenere anche le parole. Come se fosse possibile dar fuoco a una storia allo stesso modo di una pila di foglie secche in un giorno d’estate.
Fahrenheit 451, un capolavoro del genere distopico, ci insegna qualcosa di simile. Le storie sono sinonimo degli esseri umani, in un certo senso: hanno lo stesso valore e la stessa impermanenza, e come è difficile a dirsi se un libro esista in quanto pagina o parole lo stesso può valere per noi tutti. Almeno, questo è un modo di vederla. Tutto questo non è che un gioco, alla fine, ma è una domanda interessante. Ed ecco che tutti i quesiti che sembravano semplici di colpo perdono ogni senso di banalità. Si può incorniciare il cielo, oppure quella volta celeste prosegue all’infinito buio? Il vento è un fenomeno, o solo un’esperienza sensoriale?
La mia tesi, qui, è che noi lettori e scrittori spesso ci lasciamo chiudere in scatole, in limiti inesistenti perché crediamo siano i soli nei quali esprimerci. Seguiamo correnti di pensiero giù per cascate di retorica che poi difficilmente risaliamo.
“Un libro deve funzionare secondo certi schemi”, “I lettori preferiscono determinate espressioni”, sono tutti mantra che molti editori, quanto tanti critici e autori, tendono a propagare con l’aspettativa di mantenere un ordine nel mondo della letteratura, ma che inevitabilmente costruiscono siepi dove un tempo menti curiose si sarebbero potute distendere a contemplare l’infinito.
Personalmente, ritengo sia sempre utile lasciare aperte le porte a nuovi modi di scrivere e leggere. Potremmo chiamarle “gimmick” o “curiosità” senza valore, ma credo ci sia un valore intrinseco nel rompere gli schemi. E chissà che quelle mura così piccole non si possano espandere all’infinito.
Parliamo di Casa di Foglie.
Letteratura Ergodica
Nel 1997 Espen J. Aarseth conia il termine “Letteratura Ergodica”, un tipo di letteratura che richiede una misura di impegno per essere traversata dal lettore, differenziandosi da tutti quegli scritti che non richiedono più della semplice lettura del testo. Con questo, si badi, non intendiamo uno scritto prodotto con una tale incompetenza da risultare arduo alla mente (e potenzialmente alla salute) del lettore — per tali esempi ne consigliamo uno qualunque dal catalogo di Colleen Hoover.
La letteratura ergodica più che un genere è uno stile: raccontare una storia non soltanto tramite le parole, ma nelle parole come tali sulla pagina, nella loro forma, disposizione, persino nel loro colore. Un esempio possono essere i Calligrammes di Apollinaire, poesie le cui parole sono disposte in forme di disegno, The Unfortunates di B.S. Johnson, un romanzo i cui capitoli, a eccezione del primo e dell’ultimo, possono essere letti in qualsiasi ordine, o per un altro nostro preferito S., di Doug Dorst e J.J. Abrahams, la storia di un libro e delle note di due lettori.
Si può dire che la letteratura Ergodica trascende il medium tradizionale della pagina e va oltre, toccando il “libro” nella sua essenza metafisica: quella di racconto. In questo senso, l’atto stesso di andare oltre la barriera dimensionale può divenire una storia a sé stante, e nessun libro esemplifica questo concetto quanto Casa di Foglie, di Mark Z. Danielewski.
Il modo migliore per presentare questo libro a chi non ne ha mai sentito parlare è, a mio parere, il seguente: Casa di Foglie è la storia di un testo scritto da un vecchio solitario di nome Zampanò, che dopo la sua morte finisce in mano a Johnny Truant, un giovane apprendista tatuatore che vive principalmente di bevute e incontri casuali.
Nel leggere il manoscritto composto di note e appunti, Johnny prende la decisione di rimetterlo insieme inizialmente per gioco, ma man mano che prosegue nel suo lavoro questo comincia a prendere il controllo della sua vita, fino a che non si perde in un vortice di ossessione che lo allontana definitivamente dal mondo trasformandolo in un ombra della persona che era prima.
Questo si manifesta sulla pagina con una alternanza tra il testo di Zampanò e le riflessioni di Johnny, marcate da un font differente e più simile a quelli tradizionali delle vecchie macchine da scrivere. Nel corso della narrazione, il manoscritto ci viene presentato come se fosse un testo davvero esistente che Truant, da vero editore, corregge e ricompone come meglio può.
Perciò troveremo spesso nelle pagine diverse annotazioni, sia da parte di Zampanò quando si tratta di citare i testi che usa nella sua tesi, spesso anche questi inesistenti, sia da parte di Johnny Truant quando gli occorre correggere gli errori che il suddetto autore compie, o per evidenziare frammenti mancanti. Alle volte, però, questi interventi da parte di Johnny non si limitano al mero intervento, ma diramano in racconti e flussi di pensiero.
Come pagine di diario, Johnny interrompe il suo lavoro per aprire una finestra sulla sua vita debosciata, sulle sue ricerche circa il vecchio Zampanò e il contenuto del manoscritto, ed è qui che il suo personaggio assume dimensioni inaspettate e se spesso potenzialmente fastidiose o irritanti certamente anche toccanti. Sarebbe sbagliato ignorare potenziali critiche di Casa di Foglie, specialmente in queste istanze: gli intermezzi di Truant non sono sempre opportuni, molte volte scendono in dettagli esplicitamente sessuali dove non necessari e dipingono un personaggio che molti possono trovare deplorevole. Ma, a nostro avviso, bollare la storia di Johnny come un mero fastidio è un disservizio al personaggio, specialmente una volta carpito l’insieme del racconto.
Ovviamente il centro di tutto è il manoscritto di Zampanò, che altro non è che un saggio di analisi su un lungometraggio: La Versione di Navidson. Un film che, nel mondo del libro quanto come nel nostro, non è mai esistito.
La Versione di Navidson
Il manoscritto di Zampanò, La Versione di Navidson, è Casa di Foglie. Ogni frammento di trama, ogni personaggio, ogni tematica irradia da questo testo e si dirama negli altri elementi per poi ritornare al suo centro.
Will Navidson, un fotogiornalista di successo, decide di ritirarsi con la moglie e i due figli e prendere una pausa dal lavoro in una villa acquistata di recente. L’acquisizione stessa della Casa è legata al suo rapporto frastagliato con la moglie e la famiglia, ma in un tentativo di riavvicinarsi a loro decide di preparare una serie di videocamere nelle diverse stanze per riprendere spezzoni di vita quotidiana.
Tramite queste registrazioni, il film mostra come la casa inizi lentamente a cambiare forma. Un’anticamera prima inesistente tra due stanze da letto, una differenza di pochi millimetri in più della larghezza interna della casa, differenza che non si riscontra però all’esterno. Il tutto culmina con la scoperta, dove sarebbe dovuto esserci un semplice scantinato, di un corridoio impossibilmente lungo e scuro. E, al suo termine, un labirinto all’apparenza infinito. Una realtà impossibile con cui la famiglia deve fare i conti.
Il resto della Versione di Navidson riporta gli esperimenti di Will e delle persone che ingaggia per esplorare questo labirinto, e come il mistero del corridoio divenga pian piano un’ossessione che inizia a divorarlo, a corrompere la sua mente e il suo legame con la famiglia, che minaccia di distruggerlo. Un’ossessione che un lettore attento può ritrovare nel resto della sua compagnia, in Zampanò, e soprattutto in Johnny Truant.
È l’ossessione, dunque, il fulcro di Casa di Foglie. Tutti i personaggi sono perseguitati da questo desiderio incontrollabile di completare il loro lavoro, di ottenere la catarsi finale. Perseguitati dal loro passato che si manifesta palesemente nel mondo che li circonda; non è un caso che Karen, la moglie di Will Navidson, soffra di claustrofobia, che il labirinto manifesti delle scale quando un membro della compagnia, Billy Reston, sia in sedia a rotelle, e non è un caso che l’esperto cacciatore Holloway sia perseguitato da una presenza maligna, quasi animalesca. Una presenza che rincorre anche i nostri narratori.
La Ballata di Johnny Truant e Zampanò
Se ignoriamo La Versione di Navidson e ci focalizziamo solo sui due narratori, diviene semplice scoprire con quanta destrezza il romanzo porta questi due personaggi del tutto diversi a convergere su un solo cammino. Entrambi vengono quasi posseduti dal desiderio di completare un lavoro che, all’apparenza, è del tutto inutile: l’analisi di un film inesistente.
Eppure, l’effetto che ha sulle loro menti è tale da trasformarli interamente. Li insegue, divora il loro tempo, li trasforma in ombre di se stessi finché non dimenticano del tutto cosa voleva dire essere se stessi. Zampanò diviene un eremita, perde la vista, e lentamente si spegne in una casa buia che sembra sempre diversa – non diversamente dalla casa di Navidson.
Quasi come una maledizione, vediamo Johnny trasformarsi nello stesso modo. Dai primi intermezzi in cui ci parla delle sue scappatelle serali, vediamo come il passato che tentava di lasciare alle spalle torna a tormentarlo, vediamo la sua crescente paranoia quando crede di vedere mostri alle spalle, vediamo come si isoli sempre più dai suoi amici fino a quando il manoscritto diviene la sua unica realtà.
Di Zampanò non sappiamo molto, ma è interessante ponderare come questa sembri quasi la storia di un testo maledetto, un prodotto dell’immaginazione di H.P. Lovecraft: una storia che viene tramandata da penna in penna, sempre in cerca di qualcuno che la completi, ma che rende folli tutti coloro tanto sciocchi da tentare.
Chi ci dice, infatti, che La Versione di Navidson sia effettivamente una invenzione del vecchio Zampanò e non, invece, un testo che ha ereditato da un precedente autore? Forse è per questo che Truant non riesce a rintracciare notizie di questo film, il testo è passato di mano in mano tante di quelle volte che l’originale si è perso. La storia è cambiata, i nomi sono cambiati, come cambiano le stanze della casa, come cambia un tappeto di foglie, d’autunno, all’arrivo della brezza.
Si potrebbe discutere a lungo delle digressioni scientifiche e filosofiche di Zampanò e di come queste si leghino al significato intimo del testo, ma certe cose perdono di significato se esposte. Vanno semplicemente scoperte.
Cercare il Significato, Rincorrere Foglie
La narrativa di casa di foglie (Casa di Foglie) si intreccia con se stessa, la pagina diviene un palcoscenico dove le parole ottengono un peso, lo spazio si trasforma per divenire un attore a se stante. Le parole sorgono quando i personaggi scalano un precipizio, si restringono se passano per una feritoia, un buco nel muro apre una fessura nella pagina e le annotazioni divengono mura che stritolano la visione del lettore nello stesso buio claustrofobico che affligge i personaggi.
Non serve che le parole ci spieghino – tutto ciò che hanno da dire non è solo nel significato delle parole, ma nella presenza delle parole stesse. Dunque cosa significa tutto questo? Cosa cerca di dirci Casa di Foglie?
Certamente l’ossessione è un pilastro fondante della storia, una presenza continua nelle vite dei personaggi. L’ossessione per il passato, l’ossessione per il proprio lavoro, l’ossessione per un significato.
Quando Will Navidson si addentra da solo nel labirinto, senza un vero motivo, Zampanò ci racconta di come in molti, tra i critici del film da lui presentato, hanno provato a spiegare le sue azioni senza però trovare consenso unitario.
Il desiderio di sapere, di trovare una giustificazione, un motivo – è ciò che spinge ognuno di noi a vivere la nostra vita, in un certo senso. A solcare l’ignoto, a sperimentare, anche se significa abbandonare tutto. Ci addentriamo in sfide sempre crescenti per sfuggire a ciò che conosciamo e capire cosa ci sia, dietro tutto, senza mai davvero trovare risposta.
Ed è proprio questo il punto. Casa di Foglie non ha un significato, non ha una morale, non ha un vero tema se non lo strumento narrativo di ossessione e di ciò che ci riserva. No, la vera profondità di Casa di Foglie non è nel testo, ma in ciò che non dice, in quello che leggiamo noi.
Amore e Ossessione
Ci sono alcuni che hanno accusato i personaggi del libro di mancare di personalizzazione, ma questo non può essere più errato. Certamente la narrazione non si sposta mai nella mente dei personaggi, oltre Truant stesso (e come potrebbe, quando la storia della casa è narrata come fosse la sinossi di un film), ma tutto ciò che serve sapere è nascosto tra le righe, a volte in senso letterale.
Ci troviamo ad affrontare questi personaggi come farebbe uno spettatore venuto al cinema a vedere la fantomatica Versione di Navidson, e sta a noi comprendere, interpretare. Certo, non parliamo di personaggi dalle infinite sfaccettature, queste sono persone normali, a volte semplici, ma che rivelano una profonda umanità.
Spesso, leggendo libri dell’orrore, molti personaggi sono il peggio di ciò che il mondo può riservarci. Arroganti, codardi, caricature pronte per il macello. Ma in Casa di Foglie l’incredibile semplicità dei rapporti, delle parole scambiate, nonostante l’imperfezione nascondono un livello di umanità raro.
Persino nelle avventure di Truant, spesso volgari, scopriamo un personaggio estremamente disturbato quanto affascinante, e se riletto con ciò che rivelano di sua madre le Appendici a fine libro tutta la storia assume una nuova forma.
Forse, leggendo in cattiva fede, si potrebbe dire che questo modo di lasciare all’interpretazione del lettore gli aspetti intimi dei personaggi sia una scusa per non sforzarsi di scrivere. Ma ci vuole una certa abilità per far cogliere le sfumature dietro poche parole, o semplici espressioni. Diversi critici interni alla storia ci provano loro stessi, ma è qui che ci troviamo in gioco: questi personaggi hanno lo stesso potere di interpretazione che abbiamo noi.
Siamo noi stessi personaggi, anzi, protagonisti di Casa di Foglie.
È buffo che questo articolo esista, questa analisi del concetto di storia, di letteratura ergodica, e nello specifico di Casa di Foglie. Il contenuto di queste pagine, paradossalmente, potrebbe facilmente esistere all’interno del libro stesso, una delle mille citazioni di Zampanò di infiniti critici inesistenti. Sembra quasi che sia questo, il punto. La nostra visione del libro, la nostra interpretazione del significato, è di per se parte della storia stessa, è il significato nudo e puro.
Questo non è per te
Quando un aspirante autore si accinge a pubblicare, la prima cosa che gli si consiglia di pensare è “per chi scrivi?” Non ci si riferisce, ovviamente, solo al target, al tipo di lettore, o alla casa editrice. Per chi dovrebbe scrivere, un autore? Per se stesso, ignorando convenzioni e mercato, o per i potenziali lettori?
La risposta blanda sarebbe di cercare un equilibrio, o di dedicarsi agli acquirenti se si è interessati a vendere. Conseguenza naturale di questo logico ragionamento è una standardizzazione dei romanzi e delle pubblicazioni: ciò che vende viene riciclato, dalla struttura alle trame ai generi ai tropi. Un prodotto un tempo artigianale diviene prodotto in fabbrica con lo stampo per soddisfare gli interessi dei consumatori, sempre pronti ad andare sul sicuro con ciò che conoscono.
Una casa che non cambia, insomma, ben tenuta e spolverata. Ci stupiamo dunque che l’interesse per certi generi letterari sia diminuito?
La mia tesi può sembrare ingenua, ma è preferibile rischiare, osservare una storia da più punti di vista, anche quello spaziale, rompere le regole e le convenzioni. Se si stupisce abbastanza un lettore, le sue difese impiantate dal “buon senso” editoriale crollano, lasciando scoperto il soffice tessuto dell’anima. Così si creano le rivoluzioni – abbandonando ciò che è noto, rischiando, e colpendo dove nessuno ha mai raggiunto.
La letteratura ergodica, a mio parere, è un esempio di come una storia possa andare oltre i limiti che ci prefissiamo, persino quelli logici. Casa di Foglie è un passo coraggioso in un territorio quasi del tutto inesplorato, e che per questo ha raggiunto un cult following raro.
Ci si può domandare come mai romanzi come questo abbiano avuto tale risonanza con i lettori. La risposta è semplice: cosa c’è di più vicino a un lettore di una storia che parla delle storie stesse?
Un romanzo scritto per tutti non è scritto per nessuno, questo è vero. Ma, se vogliamo, lo stesso vale per un romanzo scritto unicamente per una sola persona. Se la storia scritta dall’autore contiene già in se stessa la totalità del suo creatore, cosa si ha ottenuto se non una semplice copia, una fotografia, un ritratto? Incentrare un intero scritto solo su se stessi ricorda Narciso, che specchiandosi affoga in un lago.
Perché una storia non è solo il libro. La storia, una storia vera, vive di vita propria. La storia non è per nessuno se non per se stessa, ed essere dominati da un’idea, un ossessione, può cambiarci e renderci qualcosa di diverso. A patto che non ci facciamo dominare da essa.
Dopotutto le nostre vite sono storie. Storie che ogni giorno cambiano, che si scrivono senza mai guardarsi indietro. E proprio come vivere per gli altri porta infelicità, vivere solo per se stessi non porta che a una lenta autodistruzione. Per chi viviamo, quindi, diventa un paradosso – invero, non c’è bisogno di vivere in funzione di nessuno. Vivere basta.
Cos’è la casa, dunque, se non una allegoria per noi stessi e dei nostri rapporti? Amori che cambiano, persone che diventano qualcosa di nuovo e a tratti inquietante, vite che si riassestano. Storie che, rilette, assumono una nuova forma.
Avete mai provato a rileggere il vostro romanzo preferito, conoscendone il finale? Potete forse dire che il libro che avete letto è lo stesso?
Ritornando al nostro primo quesito, le parole sono le stesse. La carta è la stessa. Le memorie sono identiche. Eppure, ammetterete, c’è qualcosa di diverso. Qualcosa di impercettibile.
A essere cambiati siete voi.
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