«…che praticamente, unita all’energia generata dallo stabilizzatore, prodotto, tra l’altro, interamente in berillio, riesce a contrastare il raggio che deframmenta gli atomi e-»
«Stefan, non me ne frega un cazzo», bofonchiò Mihail, girando l’angolo del corridoio ampio e illuminato dal neon.
«E invece dovrebbe! Perché solo così potrai capire che-»
«Chi è il mio obiettivo?», tagliò corto Mihail.
Arrivarono al laboratorio, brulicante di scienziati e operai come al solito. In un angolo Mihail riconobbe il suo superiore, Bozhkova, circondato da altri pezzi grossi dell’Agenzia. Alcuni non li aveva mai visti, ma sapeva che quelli meno noti erano sicuramente ai primi posti della scala gerarchica.
Mihail si sistemò la giacca e i capelli, accorgendosi solo in quel momento che il suo amico, Stefan, stava ancora parlando.
«…in quel giorno si troverà nel centro commerciale della zona, a fare compere per Natale. Dovrai aspettarlo nel parcheggio e agire lì, non dovrebbe esserci molta gente intorno per via della bufera di neve».
«Neve?», sbottò Mihail, strabuzzando gli occhi. «In che anno mi mandate?»
Il mondo non vedeva la neve da più di cinquant’anni, Mihail la conosceva solo dai filmati dei suoi nonni.
Stefan lo fissò accigliato. «Tredici dicembre del duemilasette. Mi ascolti quando parlo?»
«Se dicessi meno stronzate lo farei più spesso», biascicò Mihail stizzito.
Si stava avvicinando a Bozhkova e agli altri uomini, tutti in giacca e cravatta. Gli tremavano le mani per l’emozione ma si impose di rimanere calmo. Gli ultimi lavori non erano andati granché bene, nonostante liquidasse ogni richiamo con una scrollata di spalle.
Tutto ciò che doveva fare era raggiungere quel branco di vecchi boriosi, ostentare una sicurezza non presente nel suo patrimonio genetico – ma che sapeva fingere bene – e ingraziarsi i loro soldi.
Una mano lo strattonò per il braccio, facendogli perdere di vista il gruppo in un attimo.
Scoprì che a trascinarlo via era proprio Stefan, con una forza che non dimostrava.
«Dove vai? La cabina è di qua».
Venne scortato verso l’altro lato della stanza, quello con più cervelloni alle prese con calcoli e holocomputer. Alcuni si voltarono e si accorsero della sua presenza, qualcuno sorrise sotto i baffi. C’era una strana aria intorno, Mihail poteva sentire un’eccitazione pervadere tutti i presenti. Stefan non era da meno, nonostante cercasse di celarlo.
Si fermarono davanti alle porte di metallo massiccio che dividevano una parete di holocomputer a metà. Oltre si trovava la cabina in cui Mihail sarebbe entrato per ritrovarsi nel 2007.
Stefan gli mise in mano una strana scatola nera, piatta e lucida. Sembrava uno di quei vecchi telefoni degli anni ’20.
«Questo serve a riportarti indietro», spiegò Stefan. «Basta collegarlo ad una rete, una qualsiasi. Detto ciò non andare più indietro della Guerra Fredda, o potresti non tornare a casa».
Un brivido gli percorse la schiena. Si segnò mentalmente che una gita a casa di Hitler non sarebbe stata una buona idea.
Passò un dito sulla superficie liscia della scatola, e questa si accese. Sullo schermo apparve un numero, 2097, e delle freccette su e giù.
«Per cambiare anno basta far scorrere i numeri e aspettare tre secondi,» continuò lo scienziato, «ma devi farlo là dentro».
Mihail seguì lo sguardo del suo amico, puntato sulle spaventose porte metalliche alle sue spalle. Si avvicinò e queste si aprirono silenziosamente, rivelando una cabina spoglia, larga abbastanza per una persona e illuminata da una strana luce bluastra e intermittente. Non era affatto invitante e rassicurante, ma Mihail cercò di buttare giù per la gola la paura. Molti suoi colleghi avevano già fatto decine di salti temporali solo nell’ultimo anno, e se ora avevano autorizzato anche lui significava una sola cosa: promozione in vista.
Con l’idea di comprarsi una nuova holocar appena completata la missione, entrò a testa alta nella cabina. Questa si richiuse alle sue spalle, tagliando in un secondo tutti i rumori e lasciandolo solo con il suo respiro che scoprì essersi fatto affannoso.
Accese lo schermo di quell’affare, e cominciò a far scorrere i numeri con un’ansiosa lentezza.
«Tutto a posto Mihail?», gracchiò una voce dal soffitto. Mihail sobbalzò, facendo schiantare l’aggeggio a terra, e maledisse Stefan per il suo pessimo tempismo.
«Sì», sbottò, chinandosi a raccoglierlo. In quel momento sentì uno strano ronzio provenire dall’alto e farsi sempre più forte, mentre la luce bluastra aumentava d’intensità.
Raccolse il telecomando, e quando lo voltò vide con orrore il numero impresso a caratteri cubitali sullo schermo: 1007.
«No, no, no!», gridò rialzandosi di scatto. Provò a modificare i numeri, ma questi non si muovevano.
«Che succede?», domandò la voce metallica di Stefan.
«Il numero è sbagliato! Fermate tutto!»
«Come? Che hai detto?», fece Stefan, ma ormai la sua voce era sovrastata dal ronzio incessante e assordante.
Durò un attimo. Fu come essere immerso in una tenue luce blu, cristallina come il cielo, e non sentire più nulla. Niente suoni, odori, sensazioni, pensieri. Perfino la paura di Mihail era svanita, sciolta in quel tepore ghiacciato.
Poi, alla stessa velocità, tutto tornò al suo posto.
Mentre le gambe di Mihail cedevano per il peso inaspettato, notò una spada fendere l’aria sopra la sua testa. Rimase imbambolato così per un po’, come se fosse appena atterrato da chissà quale altezza, e fissò l’uomo in armatura verdognola davanti a sé. Mihail pensò che pareva uscito da uno di quei vecchi film fantasy dell’inizio del secolo, in cui avevano costumi orribili. Anche l’uomo lo fissò, aveva la pelle scura e sporca di sangue.
Gli gridò qualcosa di incomprensibile con una ferocia spaventosa, prima che una lama sbucasse dal suo petto.
Quando questa svanì, l’uomo si accasciò a terra, rivelandone un altro. La sua armatura aveva colori diversi, ma era simile. Alle sue spalle, Mihal vide altri uomini, in armature verdi, marroni, rosse e nere. Ovunque guardasse vedeva menare fendenti e colpi di spada, e uomini cadere a terra esangui.
Uno strano sibilo sopra di lui attirò la sua attenzione, e quando alzò lo sguardo notò qualcosa di grosso e scuro ostruire la luce del sole per un attimo, e farsi sempre più grande. Ricordò di aver imparato a scuola dell’invenzione delle catapulte solo quando riconobbe la gigantesca pietra in caduta libera verso di sé.