Da cultore del nuovo genere solarpunk, sono sempre interessato alle nuove uscite edite in Italia. Così sono stato immediatamente catturato da Vegumani, scritto dall’autrice sarda Clelia Farris ed edito da Future Fiction nell’estate del 2022. Uno degli editor di questo romanzo è proprio Francesco Verso, pioniere del genere nella nostra penisola, autore di varie antologie in lingua italiana e, in ultimo, fondatore della stessa casa editrice.
Aspettative
Già prima di aprire la copertina, il lettore di solarpunk ha un’idea molto chiara di quello che vuole leggere: un futuro recuperato, visto dagli occhi di un’autrice le cui origini sono sempre un po’ più distanti dal resto del paese, e che in poche autrici sono riuscite a trasmettere alla penisola (Deledda, Murgia). Un futuro che risolve i presenti conflitti di scarsità idrica, incertezza infrastrutturale e una mai risolta doppia frattura con la Terraferma (che da secoli usa la Sardegna come colonia minerale e militare) e quella delle tradizioni sarde che hanno sempre vissuto di vita propria nelle storie popolari.
La trama
Ci troviamo in un villaggio sardo semi-desertificato e attanagliato da una siccità persistente, contro la quale gli abitanti hanno trovato soluzioni solo temporanee: razionamento dell’acqua, agricoltura di precisione e protezioni dal sole letale. Nonostante queste misure, vari compaesani iniziano a cercare altre strade; strade verso il Nord, più temperato e dove vivere non richiede una lotta costante con l’ambiente circostante.
La trama ruota attorno a una crema solare, inventata dalla protagonista Gazania, che trasforma temporaneamente la pelle in corteccia fotosintetica ed estende radici che traggono nutrimento dal suolo. Ma esistono controindicazioni: chi usa questa crema rimane in uno stato di estasi non comunicativa per giorni e neglige ogni altra funzione biologica e sociale.
Nonostante la premessa centrale sia interessante, questa viene intaccata dal fatto che Gazania ha inventato questa crema prima che la storia inizi; non ci viene raccontata la sua scoperta, solo che in tanti nel villaggio la stanno già usando. Gazania dunque si reca da varie persone cercando di convincerle a non usare più la crema mentre cerca di analizzarne le proprietà. Con un background da scienziato, leggere di una protagonista che non solo usa i suoi concittadini come cavie ma che deve studiare la sua stessa invenzione prima di diffonderla in sicurezza mi sembra molto poco professionale, realistico e ancora meno solarpunk.
Altri temi molto più solarpunk sono accennati minimamente. Uno che mi ha colpito particolarmente è stato il potenziale conflitto della Astarte, la cooperativa alimentare di Gazania, che si trova di fronte all’ardua scelta tra ridurre la produzione (in quanto molti lavoratori stanno emigrando al Nord) o chiedere ai rimanenti di lavorare di più per lo stesso compenso. Tristemente, questo conflitto non viene affrontato e passa sullo sfondo in poche pagine.
O ancora: quando un campo di grano viene dato alle fiamme, la comunità non si adopera per trovare il colpevole e garantire che siano prese misure che prevengano il ripetersi di questi eventi. Il colpevole ammette il misfatto in dieci pagine, tralasciando ogni possibile approfondimento su come una società solarpunk potrebbe affrontare eventualità del genere.
I personaggi, oltre alla protagonista Gazania e l’antilavorista Asfodelo, sono facilmente dimenticabili e spesso non realistici. Principali colpevoli di ciò sono i due bambini, inizialmente presentati come vivaci ma teneri, che poi senza motivo fuggono nel deserto costringendo l’intero villaggio a mettersi sulle loro tracce, e la Nonna, che soffre della classica Sindrome degli Uchiha: un personaggio ambiguo che si rivela buono o meschino a seconda di quale colpo di scena serva alla trama in quel preciso momento.
Il Porco di Seitan
Delle tante mancanze di questo approccio al solarpunk, devo dedicare un paragrafo a quello che mi ha fatto infuriare più di tutti: il Porco di Seitan.
“Dove hanno trovato un maialetto vivo?” le chiese Gazania.
Metis fece una smorfia divertita e le bisbigliò in un orecchio: “E’ di seitan.”
Gazania osservò la carne bianca e tenera nel piatto dell’amica: sembrava proprio carne animale.
“Amegilla ha preparato il composto e Xilo lo ha modellato. La cotenna è fatta di mopur steso sottile.”
Gli ospiti masticavano entusiasti ma la Nonna, poco più in là, aveva respinto il vassoio di sughero e succhiava le zampe di una migale arrostita.
Premetto che la mia ira non è suscitata dal veganesimo, scelta di vita che rispetto e stimo. Ma in questo caso ci troviamo in una Sardegna siccitosa in cui l’acqua è razionata al millilitro; produrre 1kg di grano secco richiede circa 650L (oltre a monoculture dedicate di scala sufficientemente grande, generalmente dannose per il suolo e assetate di fertilizzanti). Per renderlo seitan, la resa è del 50% (da 1kg di farina si ricavano 500g di seitan), e il processo richiede un lungo impasto sotto acqua pulita e corrente; il che ci porta a un costo idrico di circa 1400L al chilo. Per confronto, 1kg di carne di maiale richiede circa 1850L, trascurando i vantaggi di avere maiali in fattoria, noti consumatori di scorie organiche. Non si tratta dunque di etica animale: per un villaggio in ristrettezze idriche, ricreare un maiale con il seitan è uno spreco clamoroso. Ma questo non viene preso in considerazione; la siccità non fa mai parte delle valutazioni e delle scelte, solo dell’ambientazione.
Questo è solo un esempio per illustrare come molte volte il libro non si addentri nel significato degli elementi che introduce, ma si ferma alla superficie, come i nomi floreali dei personaggi altrimenti piatti. Un elenco di “eco-cose” futuristiche che però non esplorano la realtà materiale di un paese che deve fare i conti con una condizione che già miliardi di persone al giorno d’oggi affrontano e che contemporaneamente non riescono a ispirare il lettore a un futuro capace di superare questi ostacoli.
Conclusione
Non posso non ammettere di essere rimasto profondamente deluso da quest’opera.
Oltre alla superficialità dei temi (non) trattati, si percepisce a malapena il retaggio sardo che avrei voluto vedere in questa storia. La trama non è particolarmente credibile né coinvolgente; molto spesso si ha l’impressione che gli eventi semplicemente accadano intorno a Gazania e che lei abbia raramente la possibilità di compiere scelte che cambiano le sorti della comunità in meglio.
Questo non esclude i lati positivi, che comunque bisogna sottolineare: primo fra tutti la vasta conoscenza del mondo botanico dell’autrice, trasmesso fantasticamente tra dialoghi e descrizioni. Questi ultimi sono gli altri due punti forti della novella, sempre immaginifici, realistici e genuini.
Forse con egoismo o eccessiva acidità, ma vorrei vedere più profondità dagli autori italiani di questo giovane genere. Se vuole diventare popolare, ha bisogno di storie più profonde e meno performative. A Clelia Farris e Future Fiction chiedo: riprovateci. Non fermatevi alla pelle: siate le radici che sorreggono questo libro e abbiate coraggio di esplorare più a fondo.
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